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Kosovo e Bosnia Erzegovina. Le spine dei Balcani nel soft power europeo

In Balcani, Bosnia Erzegovina, Kosovo on febbraio 28, 2010 at 4:50 PM

di Paolo Quercia

Osservatorio Strategico CeMiSS

Come per ogni ricorrenza che si approssima, l’avvicinarsi del secondo anniversario dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, previsto per il 17 febbraio, costituisce un’occasione per effettuare bilanci o per tentare di muovere verso nuovi sviluppi la situazione sul terreno. Anche in quest’ottica può essere letto il varo da parte dell’ICO, l’ufficio che rappresenta la Comunità internazionale presente in Kosovo, di un piano per il Kosovo settentrionale volto a rendere maggiormente integrato il controllo del territorio, ad oggi diviso o spartito tra governo centrale di Pristina, missione EULEX e le strutture parallele di continuità amministrativa con Belgrado.

Il Nord del Kosovo continua a rappresentare il punto di maggior tensione, e i due anni dall’indipendenza non hanno contribuito affatto alla riduzione della tensione tra le comunità e la pace rimane estremamente fragile, come riconosciuto anche nel rapporto periodico sottoposto dal Rappresentante speciale delle Nazioni Unite. Come è tipico nel caso del Kosovo, la situazione rimane apparentemente calma in quanto la contrapposizione etnica è evidente e manifesta ed è basata su meccanismi di esclusione/autoesclusione. Le comunità convivono gomito a gomito ma ignorandosi l’un l’altra, conducendo vite etniche parallele, controllando le mosse reciproche, in particolare quelle che sono manifestazioni esteriori di forme di controllo del territorio (ritorno di rifugiati, costruzione di nuovi insediamenti, apertura di attività commerciali, presenza di funzionari pubblici ecc.). Qualsiasi occasione improvvisa può però degenerare in conflitto, riattivando i meccanismi della violenza etnica volta all’espulsione dal territorio dei membri dell’altra etnia e dei simboli della sua presenza. La comunità internazionale vive in questo costante sbilanciamento tra calma apparente, che potrebbe lasciar pensare ad una non necessarietà della propria presenza e rischio di una improvvisa e violenta deflagrazione. In realtà i motivi della presenza del complesso e articolato livello internazionale (EU, UN, NATO, ICO) trascende la questione del conflitto etnico territoriale e, in particolare dopo l’indipendenza, va a rivestire un ruolo di controllo e di sostegno alle attività istituzionali del neonato Stato, la cui fragilità e debolezza – unita alla presenza diffusa di attività criminali – obbligano la comunità internazionale a mantenere un livello di presenza anche a prescindere dalle questioni etniche.

I livelli di crisi possibili in Kosovo

Tre sono dunque i livelli di crisi che possono emergere in Kosovo: quello relativo alla questione del conflitto etnico tra le comunità albanesi e serbe, quello giuridico territoriale tra il governo di Pristina e quello di Belgrado e quello relativo al rischio di implosione statale (failed state) nel caso in cui l’indipendenza non riesca a dare solide basi al nuovo stato balcanico. Se il livello di crisi strutturale di statualità fallita rappresenta un livello di rischio nel medio lungo periodo che può affermarsi in previsione di un disimpegno della comunità internazionale, gli altri due livelli di rischio invece convivono con la presenza internazionale e rappresentano una diretta ed attuale sfida alla gestione del Kosovo post-indipendenza. Da questo punto di vista il 2010 offre alcuni potenziali situazioni di sfida per la sicurezza nel breve periodo. Uno di essi è rappresentato dal verdetto della Corte di Giustizia dell’Aja che si dovrà pronunciare sulla questione della legittimità o meno della dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, la cui sovranità è riconosciuta ormai da 65 paesi delle Nazioni Unite. Il governo serbo è piuttosto confidente circa gli esiti di tale verdetto, che secondo Belgrado dovrebbe rappresentare un rafforzamento della propria volontà di non procedere al riconoscimento del Kosovo indipendente. In particolare, se la Corte dell’Aja si pronuncerà in senso prevalentemente favorevole alle posizioni di Belgrado, la Serbia otterrà un importante salvacondotto nel suo percorso di adesione all’Unione europea in quanto nessuna condizionalità del riconoscimento del Kosovo potrebbe essere imposta una volta che la sentenza della Corte delle Nazioni Unite abbia posto in dubbio le basi della legittimità del processo d’indipendenza di Pristina. Belgrado ha già iniziato a parlare di nuovi negoziati sullo status del Kosovo, argomento che è stato seccamente rifiutato da Pristina e dai paesi che hanno già riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, che preferiscono spingere Belgrado verso un negoziato per ridurre la propria presenza parallela in Kosovo portando ad una uniformità amministrativa che sarebbe garantita non dalle strutture del governo di Pristina ma da quelle della comunità internazionale. Attualmente i tentativi di erodere le basi del potere di Belgrado in Kosovo sono concentrati sul piano di integrazione del Nord proposto dal rappresentante dell’International Civil Office Peter Feith congiuntamente con il governo kosovaro. Tale piano prevede, all’interno di un processo di decentramento amministrativo teorico da Pristina e di separazione dal potere effettivo di Belgrado, la costituzione di autorità amministrative locali per il Kosovo settentrionale. Nel momento in cui tale piano diverrà operativo, l’Unione Europea aprirà i propri uffici nel Nord del Kosovo ed inizierà ad erogare i propri servizi amministrativi, nel campo della giustizia, dell’educazione, eccetera. Belgrado ha già ufficialmente rifiutato tale piano rifiutando di smantellare le proprie istituzioni parallele, che considera l’unica garanzia per le proprie comunità, dando istruzione ai propri dipendenti nell’amministrazione locale a non accettare salari provenienti da Pristina o dalla comunità internazionale. L’estensione del potere del governo di Pristina o della comunità internazionale a Nord del fiume Ibar rappresenta un passaggio particolarmente pericoloso, come è stato dimostrato dai recenti fatti del Marzo 2008 quando un tentativo da parte della polizia delle Nazioni Unite di prendere controllo del tribunale di Mitrovica, per passarlo in gestione alla UE, diede vita ad una battaglia con armi da fuoco contro le forze di polizia di Unmik e con i militari della NATO.

Inoltre, un’ulteriore difficoltà è rappresentata dal fatto che la Serbia non riconosce l’ICO, che rappresenta quella parte della comunità internazionale che riconosce l’indipendenza del Kosovo, mentre EULEX – a causa dei paesi UE che non riconoscono il Kosovo – è costretta ad operare come missione status neutral. Il futuro del piano di integrazione del Nord sarà in buona parte legato al fatto se i paesi europei che riconoscono il Kosovo saranno in grado di garantire una condizionalità dell’accettazione del piano al processo di integrazione di Belgrado nella Ue. Il semestre di presidenza spagnola (con Madrid che non ha riconosciuto il Kosovo indipendente) si rivelerà da questo punto di vista un’importante cartina di tornasole che consentirà di misurare la determinazione che l’Unione europea saprà mettere nella questione kosovara e più in generale sulle questioni irrisolte dei Balcani. Una conferenza ad alto livello, presumibilmente a livello dei Ministri degli esteri, si terrà a Sarajevo nel mese di maggio, in particolare rivolta agli assetti istituzionali della Bosnia Erzegovina e al futuro degli accordi di Dayton. È ancora da capire quali saranno i paesi invitati e quale sarà la portata di tale conferenza. Un aspetto cruciale riguarda la questione se i lavori diplomatici saranno destinati alla sola Bosnia Erzegovina o più in generale agli assetti balcanici. Sarà sicuramente fonte di contenzioso la possibilità di estendere l’invito anche al ministro degli esteri di Pristina. Un mancato invito svaluterebbe la conferenza di un partecipante significativo e creerebbe tensioni con gli Usa e con i paesi che riconoscono il Kosovo, ad iniziare dall’Albania ma anche altri paesi della regione come Croazia e Slovenia. Tuttavia, anche l’opzione di avere il Kosovo partecipante a questo tavolo produrrà conflitti e problemi. Ad iniziare dalla sicura mancata partecipazione di Belgrado, la cui assenza renderebbe vana e trasformerebbe in un fallimento la conferenza stessa. Ma anche il governo di Sarajevo, unico che tra i paesi della regione balcanica non ha riconosciuto il Kosovo per non innescare processi interni di conflittualità con la componente serba, si troverebbe ad affrontare enormi problemi politici nel caso in cui dovesse ospitare una conferenza internazionale allargata alle autorità di Pristina. Nel frattempo la Russia si è pronunciata contro il piano per il Nord sostenendo che esso viola la risoluzione delle Nazioni Unite 1244. A complicare la situazione è emerso anche un sondaggio recentemente svolto dalla società Gallup secondo cui la maggior parte degli albanesi del Kosovo e di quelli in Albania è favorevole alla fusione dei due paesi. Favorevoli alla fusione sarebbero il 74% degli albanesi del Kosovo e il 70% dei cittadini albanesi. La metà dei kosovara ritiene che tale fusione avverrà a breve termine.

La situazione bosniaca: la minaccia referendaria dei serbo-bosniaci e le mosse per il superamento di Dayton.

Ma l’attenzione internazionale sulle questioni interne del Kosovo non è legata alle sole questioni interne del controllo parallelo di Belgrado, ma è altresì collegato al deterioramento verificatosi nella situazione interna nella vicina Bosnia Erzegovina. Il paese, bloccato dalla costituzione di Dayton e dallo stallo etnico, oscilla tra due opzioni entrambe estremamente pericolose: l’abolizione delle entità e delle garanzie di Dayton da superare in funzione della costituzione di uno Stato centralizzato da un lato, la minaccia di un referendum secessionista da parte della componente serba dall’altro. Dodik, il leader politico dei serbo bosniaci, da abile stratega balcanico è riuscito a collegare le due minacce l’una con l’altra. Se la comunità internazionale procederà con il superamento di Dayton la componente serba risponderà con un referendum sulla secessione da Sarajevo. Dopo aver lanciato tali minacce nel corso dell’intero scorso biennio, Dodik è ora intenzionato a procedere con un’azione preventiva, l’indizione di un referendum nella parte serba sul Trattato di Dayton. Tale referendum, avvolto da ambiguità tattiche balcaniche, ha provocato numerose reazioni negative. Tra di esse particolarmente grave è stata quella del presidente uscente croato Mesic che ha sostenuto che la Croazia dovrebbe rispondere con l’invio dell’esercito in Bosnia Erzegovina ad un eventuale referendum secessionista da parte dei serbo-bosniaci. Anche se l’uscita del presidente Mesic, membro del partito nazionalista croato Hdz, deve essere letta prevalentemente in funzione di un contesto politico interno (ossia volta a far emergere verso l’opinione pubblica croata il presidente entrante come meno attento agli interessi nazionali croati che, nelle logiche balcaniche si tutelano solo con lo strumento militare) essa ha contribuito a gettare benzina sul fuoco in una situazione tutt’altro che tranquilla. In questo contesto, l’annunciato referendum rischia di portare verso un’ulteriore aggravarsi della situazione di stabilità regionale. Dodik è deciso a far tenere un referendum nella parte serba del paese ad ogni costo, indipendentemente di quale sia in realtà il quesito da porre ai propri elettori. La strategia referendaria è volta in primo luogo a dimostrare la propria forza politica e la capacità di mobilitazione della popolazione serba, in attesa di eventuali bracci di ferri che potranno avvenire nel 2010 e a lanciare un monito alla conferenza internazionale sui Balcani prevista entro il semestre di presidenza spagnolo. Attualmente la consultazione referendaria dovrebbe essere programmata nei prossimi mesi, ma non sono chiare quali saranno le domande a cui verranno sottoposti i votanti. Sembra che la tendenza di Dodik attualmente sia quella di farne un referendum pro Dayton che miri in primo luogo a delegittimare ogni tentativo di un suo superamento. La validità preventiva del referendum non annulla, tuttavia, il suo potenziale significato reattivo: un plebiscito in favore di Dayton renderebbe sempre possibile – anzi legittimerebbe – successivamente nel corso del 2010 un secondo eventuale referendum sulla secessione in caso in cui il Trattato di Dayton venisse posto sotto revisione. Probabilmente la scelta di Dodik finirà per prediligere l’opzione del referendum pro Dayton ma vi aggancerà ulteriori domande che lasciano intravedere possibili reazioni in caso di tentativi di revisione dei confini interni alla Bosnia Erzegovina e delle competenze delle due entità.

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